Riflessioni in ordine alla sorte del dipendente indagato / imputato per un determinato reato
Questione giuridica oggi assai rilevante è quella delle sorti del dipendente (pubblico o privato: specie a seguito della contrattualizzazione del pubblico impiego la differenziazione è diminuita, anche sotto questo profilo), indagato/imputato per un determinato reato.
In un recente caso, un pubblico dipendente (DGSA di un istituto scolastico) è stato indagato in ordine al reato di cui all’art. 314 c.p., “perché, avendo la disponibilità per ragione del suo Ufficio delle credenziali necessarie ad effettuare gli ordini e i pagamenti nell’interesse del menzionato Istituto Scolastico, si appropriava di un televisore …): in casi come questo, si tratta di accertare quali sono le conseguenze sul piano lavoristico laddove il pubblico dipendente, in sede processuale, aderisca al rito alternativo del patteggiamento.
In linea generale, ai sensi dell’art 2106 c.c. anche il potere disciplinare-sanzionatorio (come, in generale, ogni potere sanzionatorio: v. art. 3 Cost) è improntato al principio di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto commesso. Una sanzione (quale, ad esempio, il licenziamento) che si applicasse automaticamente in conseguenza dell’accertamento di un qualsiasi fatto di reato, a prescindere dalle circostanze del caso concreto (es attenuanti, aggravanti, lieve entità, tipologia del fatto di reato …) sarebbe in contrasto coi principi di uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza.
Sempre in linea generale, l’atteggiamento da parte dell’ordinamento è contrario ad ogni tipo di automatismo. In termini, si legge, per esempio, che “La giurisprudenza costituzionale è costante nell'affermare l'illegittimità costituzionale dell'automatica destituzione da un pubblico impiego a seguito di sentenza penale, senza la mediazione del procedimento disciplinare. Questa Corte ha, infatti, chiarito che la sanzione disciplinare va graduata, di regola, nell'ambito dell'autonomo procedimento a ciò preposto, secondo criteri di proporzionalità e adeguatezza al caso concreto, e non può pertanto costituire l'effetto automatico e incondizionato di una condanna penale (sentenze n. 234 del 2015, n. 2 del 1999, n. 363 del 1996, n. 220 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 158 del 1990, n. 971 del 1988 e n. 270 del 1986), neppure quando si tratti di rapporto di servizio del personale militare (ad esempio, sentenze n. 363 del 1996 e n. 126 del 1995). Solo eccezionalmente l'automatismo potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell'estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies cod. pen. Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego - che giustifica l'automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta - non sussiste in relazione all'interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto”(Corte Cost., 15/12/2016, n.268).
Queste considerazioni dovrebbero implicare un margine di discrezionalità (da parte del giudice di merito o del datore di lavoro) quanto all’applicabilità della sanzione espulsiva. Infatti, la giurisprudenza afferma che “Se, pertanto, l'accertamento compiuto nella sentenza di applicazione della pena su richiesta vincola il giudice del procedimento disciplinare quanto alla ricostruzione del fatto storico e della relativa responsabilità (con un vincolo sul giudizio disciplinare che Cass. SU n. 9166/2008 qualifica come "effetto di giudicato" quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità e alla commissione dello stesso da parte dell'imputato, v. anche Cass. n. 17113/2009; per una più articolata valutazione Cass. n. 5806/2010), resta, nondimeno, da esaminare se tale accertamento precluda, comunque, una autonoma valutazione dell'incidenza degli stessi fatti sul rapporto di impiego, alla luce dei principi che regolano il rapporto contrattuale e che ispirano il procedimento disciplinare. Da questo punto di vista, nessuna incompatibilità è rinvenibile fra la necessaria autonomia del procedimento disciplinare, che riflette garanzie fondamentali della persona del lavoratore, quali l'esigenza che nessuna sanzione venga adottata in violazione del principio audietur et altera pars e dei canoni di effettiva lesione dell'interesse del datore di lavoro (pubblico o privato) e di proporzionalità ed adeguatezza rispetto alla mancanza addebitata, e le connessioni che si instaurano con la giurisdizione penale, al fine di assicurare, per come si è detto, l'economicità dei giudizi e le finalità di pubblico interesse (e, quindi, di imparzialità, correttezza ed efficacia) che a tutt'oggi devono ispirano l'azione della pubblica amministrazione nella veste di datore di lavoro pubblico. L'autonomia della valutazione disciplinare, per come ha da sempre ricordato il giudice delle leggi, si riporta, infatti, al criterio di razionalità, che è alla base del principio di eguaglianza e che postula sempre l'adeguatezza della sanzione al caso concreto, escludendo ogni automatismo disciplinare, e impone, pertanto, che la valutazione della compatibilità del comportamento del pubblico dipendente con le specifiche funzioni da lui svolte nell'ambito del rapporto di impiego sia sempre ricondotta, al fine di garantirne la necessaria adeguatezza e gradualità in rapporto al caso concreto, e, quindi, il rispetto dell'art. 3 Cost., alla naturale sede del procedimento disciplinare (cfr. Corte Cost. n. 197/1993), in difetto delle quali condizioni "ogni norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale" (così Corte Cost. n. 971/1988; v. anche Cons. Stato Ad. Plen. n. 2/2002)). Il che implica, in definitiva, che pur nei procedimenti disciplinari instaurati a seguito di pronuncia di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., il datore di lavoro è tenuto, con autonoma valutazione, a riscontrare, sulla base dei fatti materiali e della loro ascrivibilità al dipendente, per come accertati dal giudice penale, e svolgendo, se necessario, ogni ulteriore utile accertamento, se i medesimi siano idonei, alla luce dei principi e della disciplina contrattuale che regolano il rapporto d'impiego, a legittimare la violazione dei doveri di ufficio, garantendo la necessaria proporzionalità ed adeguatezza della sanzione al caso concreto” (Cassazione civile sez. lav., n.1141/2011).
Conseguentemente, il principio è quello dell’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale. In sede disciplinare il datore di lavoro dovrà procedere ad una valutazione autonoma, pur sempre “sulla base dei fatti materiali e della loro ascrivibilità al dipendente, per come accertati dal giudice penale, e svolgendo, se necessario, ogni ulteriore utile accertamento”, anche alla luce dei principi di adeguatezza e proporzionalità del potere disciplinare-sanzionatorio. Tutto questo pur nel rispetto di quanto previsto dall’art 653 c.p.p. sull’efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare (che prevede “La sentenza penale irrevocabile [648] di assoluzione [530] ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso. La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso).
Ciò brevemente detto in via generale, occorre però richiamare la Legge 97/2001 che ha introdotto “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Tale legge all’art 3 disciplina il “Trasferimento a seguito di rinvio a giudizio” quando nei confronti di un dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica è disposto il giudizio per alcuni dei delitti contro la pubblica amministrazione (tra cui il peculato).
All’art 4 della legge citata è poi previsto che “Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall'articolo 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio. La sospensione perde efficacia se per il fatto è successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva e, in ogni caso, decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato”.
Sul tema, si legge “La L. n. 97 del 2001, art. 4, obbliga la pubblica amministrazione a disporre la sospensione del dipendente dal servizio in caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti previsti nel precedente art. 3, tra i quali vi è il delitto di peculato, per il quale l'odierna parte ricorrente veniva condannata dal Tribunale penale di Brescia. A tenore del medesimo art. 4, la sospensione cautelare perde efficacia se per il fatto è successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione, anche non definitiva, nella specie resa nel giudizio penale di appello. All'esito della assoluzione, è a carico della amministrazione l'obbligo di assumere le determinazioni conseguenziali ovvero di disporre la riammissione in servizio del dipendente, con atto ricognitivo del venir meno della causa di sospensione (o, alternativamente, la sospensione facoltativa dal servizio, ove ne ricorrano i presupposti)” (Cassazione civile sez. lav., n.5813/2022).
Anche la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato afferma che “Con riferimento ai rapporti tra la l. n. 97/2001 e il d.lgs. n. 66/2010, deve rilevarsi che questa Sezione ha ritenuto "di non discostarsi da un risalente, ma tuttora valido, orientamento giurisprudenziale, secondo cui la previsione di cui al citato articolo 4, comma 1, della legge n. 97/2001 è una norma speciale introdotta dal legislatore con l'intento di perseguire con maggiore severità il pubblico dipendente condannato per ipotesi di reato particolarmente gravi (...) 'la cui riconosciuta commissione comporta l'esclusiva responsabilità del dipendente per interruzione del sinallagma tra prestazione lavorativa e quella retributiva' (cfr. Cons. Stato, Sez. II, n. 4414/2011)" (Cons. Stato, sez. II, 11 luglio 2022, n. 5818). Secondo tale indirizzo, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, deve ritenersi che la gravità delle fattispecie considerate dalla legge n. 97/2001, costituite da delitti commessi nei confronti della pubblica amministrazione da parte dei pubblici ufficiali, "imponga, in base al principio di specialità, l'applicazione del più rigoroso regime ivi previsto in luogo di quello disciplinato sul piano generale dall'art. 918 c.o.m." (Cons. Stato, n. 5818/2022, cit.) (Consiglio di Stato sez. II, n.8951/2022).
La Legge 97/2001 ha anche inserito nel codice penale l’art 32-quinquies c.p. che recita “Salvo quanto previsto dagli articoli 29 e 31, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater primo comma, e 320 importa altresì l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”.
La norma in discorso ha previsto, dunque, la pena accessoria dell’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego da applicarsi nei confronti del dipendente di amministrazioni o enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica nel caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per determinati reati contro la P.A.
Si può porre un dubbio di legittimità quanto al principio di proporzionalità e adeguatezza. Tuttavia, si può affermare che la ragionevolezza del sistema sia ravvisabile nel fatto che la sanzione massima (l’estinzione del rapporto di lavoro) scatti solo con riferimento a fatti di reato più gravi individuati dal legislatore dal punto di vista tipologico e dal punto di vista del quantum.
La sanzione accessoria in commento ha carattere interdittivo, in quanto inibisce la prosecuzione del rapporto di lavoro o di impiego.
Ha funzione sia di prevenzione generale che di prevenzione speciale, mirando a preservare la fiducia del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione nonché ad evitare il perdurare di condotte delittuose assai gravi.
Tale sanzione accessoria determina, dunque, l'estinzione del rapporto di dipendenza di impiego pubblico ovvero di diritto privato che sia in corso al momento della condanna. La cessazione del rapporto di lavoro consegue automaticamente alla comunicazione all'ente o alla società dell'estratto della sentenza di condanna passata in giudicato da parte del pubblico ministero competente per l'esecuzione della pena.
In mancanza di indicazioni in tema di durata della sanzione accessoria, si ritiene che essa abbia durata pari a quella della pena detentiva applicata in sentenza (art. 37). Ne consegue che il condannato non può essere assunto nuovamente dalla pubblica amministrazione o dall'ente fin tanto che dura la condanna da espiare.
Quanto alla equiparabilità della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, la Suprema Corte ritiene che l'estinzione del rapporto di impiego, in quanto conseguenza obbligatoria legata all’entità della pena inflitta, debba essere necessariamente applicata anche con la sentenza di patteggiamento, quando la pena principale sia pari o superiore ai due anni di reclusione (Cass . I, n. 1230/2021). La soluzione può lasciare comunque perplessi sia perché la norma fa riferimento alla condanna, a cui appare problematico equiparare la sentenza di applicazione della pena, sia perché fino a due anni di reclusione non dovrebbero trovare applicazione le sanzioni accessorie in caso di patteggiamento.
Le superiori considerazioni vanno, però, integrate alla luce della recente Riforma Cartabia che ha previsto la possibilità di non applicare le pene.
Più in particolare, la Riforma ha previsto la negoziabilità delle pene accessorie, la cui applicazione, in conseguenza del c.d. patteggiamento “allargato”, poteva rivelarsi, a seconda dei casi, maggiormente afflittiva rispetto alla pena principale.
L’art. 1, comma 10, lett. a) n. 1, L. n. 134/2021, ha conferito delega all’esecutivo al fine di “prevedere che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l'accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata”.
Il legislatore delegato, nell’attuare i principi e i criteri direttivi con il D.Lvo 150/2022, ha inserito un ulteriore periodo al comma 1 dell’art. 444 c.p.p., in base al quale “l’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis”.
La previsione normativa riguarda le sole ipotesi di patteggiamento “allargato”, dato che, nei casi in cui la pena concordata venga contenuta entro i due anni, non è prevista l’applicazione di pene accessorie, salvo che per alcuni reati contro la pubblica amministrazione (art. 444, comma 3-bis, c.p.p.).
L’estensione dell’accordo all’an (salvo i casi in cui l’applicazione sia obbligatoria) e al quantum delle pene accessorie, nei casi in cui la pena concordata superi i due anni, è sicuramente finalizzato a rendere più appetibile la scelta del rito de quo, nel senso che permette di conseguire col patteggiamento allargato uno dei benefici tipici del suo omologo in forma tradizionale. Inoltre, è un intervento che rafforza le garanzie dell’imputato poiché riduce la discrezionalità del giudice, evitando la prassi in base alla quale l’organo giudicante poteva applicare pene accessorie che non rientravano nell’accordo tra le parti (v. Cass. pen., Sez. IV, 3/7/2019, n. 28905, Rv. 276374).
La clausola di riserva «salvo quanto previsto dal comma 3-bis» è finalizzata a evitare che l’accordo sulle pene accessorie possa comportare un’elusione della rigida disciplina, introdotta con la c.d. legge “spazzacorrotti”, relativamente ad alcuni reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. È noto, infatti, che la condanna per talune di queste fattispecie criminose comporta l’applicazione di pene accessorie, che possono essere stabilite in misura fissa o in misura variabile (nelle ipotesi di lieve entità o di condanna fino a due anni).
Ad ogni buon conto, anche in caso di patteggiamento allargato, l’accordo può vertere sull’applicazione delle pene accessorie che, per effetto dell’attenuante di cui all’art. 323-bis c.p., possono avere una durata compresa tra uno e cinque anni.
A ciò si aggiunga che all’art 445, il co 1bis c.p.p. è stato sostituito (sempre ad opera del D.Lvo 150/2022 -cd. Riforma Cartabia-), dal nuovo comma 1bis che afferma “La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando e' pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non puo' essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l'accertamento della responsabilita' contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza e' equiparata a una pronuncia di condanna”.
Conclusivamente, anche nelle ipotesi di reati gravi come nel caso di specie (324 c.p.), in considerazione della riduzione per la scelta del rito (il patteggiamento, che implica anche il risarcimento del danno), della riduzione per il riconoscimento di circostanze attenuanti (nel caso, l’attenuante ex art 323-bis c.p.), dell’eventuale riconoscimento del fatto di lieve entità e, infine, in considerazione dell’accordo tra difesa e accusa quanto alla non applicabilità di pene accessorie, si può ragionevolmente sostenere che il licenziamento automatico del dipendente potrebbe essere escluso.
Ciò detto, però, il datore di lavoro rimane comunque libero di valutare il comportamento tenuto dal proprio dipendente, anche alla luce di codici comportamentali e prassi in atto sul posto di lavoro. A fronte di un eventuale licenziamento, quindi, il dipendente dovrà poi assumere le proprie ulteriori difese nelle opportune sedi.