Riconoscimento dell’assegno divorzile: presunzioni e onere probatorio

Con la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione (sentenza del 19.08.2024, n. 22942), la Corte è tornata ad occuparsi del tema dell’assegno divorzile.

Il caso riguardava un giudizio di divorzio avanti al Tribunale in cui il marito chiedeva la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio. La moglie si costituiva in giudizio aderendo alla domanda del ricorrente, richiedendo un aumento dell’assegno di mantenimento per il figlio, un assegno divorzile in misura superiore all’assegno di mantenimento che già riceveva e la conferma del contributo alle spese straordinarie.

Il Tribunale considera la sensibile sproporzione delle condizioni economico-patrimoniali tra le parti: era presumibile che la resistente avesse rinunciato ad occasioni professionali concrete e realistiche e che l’impegno dalla stessa profuso nella gestione del figlio e della casa coniugale avesse consentito al ricorrente d’investire le proprie attenzioni nel lavoro e di consolidare così i propri affari; un simile contributo della ex moglie alla vita familiare, per la durata di circa 13 anni, aveva dunque legittimato l’assegno divorzile in funzione perequativa-compensativa.

Il padre impugnava la sentenza, chiedendo la revoca dell’assegno divorzile, di rideterminare l’assegno per il mantenimento del minore e la modifica delle condizioni di affidamento del figlio.

La Corte d’Appello rigettava l’appello.

Il padre ricorreva per Cassazione per plurimi motivi.

 

Con la citata pronuncia, la Corte ha ribadito la doppia funzione dell’assegno divorzile. “L’assegno divorzile assolve una funzione non solo assistenziale ma anche compensativo-perequativa che dà attuazione al principio di solidarietà posto a base del diritto del coniuge debole; ne consegue che detto assegno deve essere riconosciuto, in presenza della precondizione di una rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale tra gli ex coniugi, non solo quando la rinuncia a occasioni professionali da parte del coniuge economicamente più debole sia il frutto di un accordo intervenuto fra i coniugi ma anche nelle ipotesi di conduzione univoca della vita familiare -che, salvo prova contraria, esprime una scelta comune tacitamente compiuta dai coniugi-, a fronte del contributo, esclusivo o prevalente,, fornito dal richiedente alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge, anche sotto forma di risparmio (Cass., n. 4328/24)”.

La Suprema Corte ha ribadito anche le modalità di quantificazione del contributo di mantenimento dei figli: “…Nel giudizio di divorzio, al fine di quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli economicamente non autosufficienti, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto (Cass. 19299/20)”.

La sentenza evidenzia anche l’importanza delle presunzioni nel processo di riconoscimento dell’assegno divorzile. La presunzione fondata su fatti storici ed oggettivi (es. la dedizione alla famiglia, in sostanza mai contestata, il fatto che il marito fosse dedito quasi esclusivamente al lavoro, la durata del matrimonio, 20 anni), possono costituire prova sufficiente per giustificare l’assegno.

 

Questa sentenza è importante perché costituisce un ulteriore tassello in tema di assegno divorzile, allineandosi ad un approccio che, sempre più, riconosce e valorizza il ruolo domestico nella formazione del patrimonio familiare evidenziando come il contributo della moglie alla cura dei figli e della casa, pur se supportato da collaboratori (colf, baby sitter), sia stato determinante per permettere al marito di dedicarsi alla carriera. Questo elemento, unito alla durata del matrimonio, giustifica l’assegno.

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