Responsabilità Medica. Ad impossibilia nemo tenetur: l’impervia mission conciliativa del medico legale nel procedimento ex art. 696bis C.p.c.
Sono sempre più frequenti le segnalazioni relative all’affermarsi di una prassi processuale che pare aver preso piede in diversi Tribunali equanimemente sparsi nel Bel Paese ed in virtù della quale il Giudice del procedimento ex art. 696 bis C.p.c., all’atto della nomina del Consulente Tecnico d’Ufficio, lo investe altresì del compito di formulare una proposta conciliativa atta a definire l’intera controversia.
Se, infatti, fino a tempi recenti i Consulenti incaricati avevano interpretato tale mandato in termini restrittivi, perimetrandolo alla sola quantificazione del danno biologico nelle sue diverse componenti, oggi viene chiesto loro molto di più: viene chiesto di proporre alle parti una vera e propria ipotesi di risarcimento formulata in termini monetari sulla quale possa cadere il loro idem placitum.
In realtà, se nuovo è il fenomeno, antiche sono le cause.
Vista dalla prospettiva del Giudice, non vi è dubbio che tale prassi incontri il gradimento di quest’ultimo, il quale non può che allietarsi del fatto che la lite trovi una composizione esterna al processo con un conseguente sgravio del suo ruolo: e diciamo questo fuori da ogni polemica di maniera nei confronti della magistratura, poiché, in realtà, essa non può che assecondare una precisa corrente impressa da un legislatore nazionale che, ormai da tempo, si cimenta nell’impedire – verrebbe da dire, ad ogni costo – che il cittadino entri nel Palazzo di Giustizia.
Segnaliamo, da ultimo, la diposizione introdotta con la riforma Cartabia (art. 5 quinquies D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28) a mente della quale il Giudice viene paradossalmente ritenuto “capace” e “laborioso” nei termini e nella misura in cui egli demandi la definizione della lite alla mediazione, vale a dire ad un luogo che è esterno, non soltanto al processo, ma anche allo stesso iusdicere, in un’avvilente ed artificiosa ottica di equiparazione dei due contesti che, nonostante paludamenti meritori, trova unica ed esclusiva ragione nell’esigenza di contenimento della spesa pubblica.
La mediazione, appunto.
In effetti, estendere al medico legale (e/o al clinico) il compito di definire la vertenza attraverso una soluzione bonaria che tenga dentro anche gli aspetti strettamente economici, significa ammantarlo della veste di vero e proprio mediatore.
Significa, in altre parole, assimilare la Consulenza Tecnica d’Ufficio a quel curioso luogo sociale che è oggi la media-conciliazione, in cui una controversia su un diritto può essere definita senza spendere una sola parola sul diritto.
Sennonché i medici, sotto questo aspetto, si pongono molto più scrupoli di quanto se ne pongano gli avvocati mediatori, in quanto essi per primi avvertono tutto il disagio insito nel suggerire alle parti un punto di incontro delle loro pretese in assenza di alcun addentellato che renda oggettiva o, quantomeno, razionale, tale soluzione.
Ad onor del vero è innegabile che esistano ambiti in cui la lite si presta ad una composizione su base quasi aritmetica: si pensi alla materia dell’appalto privato, in cui il CTU sia chiamato a valutare la sussistenza di una responsabilità contrattuale da inadempimento ai sensi degli art. 1667 e 1669 C.p.c. In quel contesto è innegabile che entità economiche come il costo di mano d’opera e materiali per l’eliminazione dei vizi, il controvalore delle opere eseguite, etc., siano tutte immediatamente riducibili in temini monetari e che la quantificazione del corrispettivo o del risarcimento dovuto possa davvero riposare su una valutazione oggettiva.
Ben diversa è la situazione in quello che è diventato il campo elettivo dell’accertamento anticipato ex art. 696 bis C.p.c. – vale a dire la responsabilità civile per malpractice sanitaria – per effetto della previsione della Legge Gelli Bianco che ha eletto tale istituto a condizione di procedibilità in alternativa alla mediazione (art. 8 L. 8 marzo 2017).
E’ evidente, infatti, come in tale ambito la formulazione di una proposta transattiva debba necessariamente transitare attraverso la soluzione di questioni pregiudiziali rispetto alle quali al medico legale mancano le coordinate per orientarsi.
Pensiamo, in primo luogo, alle questioni che renderebbero ardua l’enucleazione di una proposta transattiva finanche al Giudice, come l’accertamento dell’esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno ingiusto: in un sistema come il nostro che accoglie il modello di responsabilità fondato sul principio all or nothing, viene da chiedersi quale punto di incontro può ragionevolmente individuarsi tra la pretesa del paziente che sostiene l’esistenza del nesso causale e l’eccezione del medico o struttura che tale esistenza nega tout court. E’ concettualmente corretto ipotizzare che una somma di denaro possa collocarsi a metà strada tra le due posizioni, in questo modo ipostatizzando una responsabilità derivante da “un po’ di nesso causale, ma non tutto”?
Ma ovviamente vi sono altri ambiti in cui sorgono testardi ostacoli logici. Sappiamo, ad esempio, che la personalizzazione del danno può aversi solo in presenza di circostanze di fatto che rendano la situazione del paziente sensibilmente diversa dall’id quod plerumque accidit, consentendo di individuare un “danno conseguenza” che si verifica solo nella sua irripetibile esperienza di vita di quel determinato paziente. Ma allora, se è vero che tali circostanze storiche possono entrare nel processo solo attraverso la prova fornita dalla parte che vi ha interesse – prove che ovviamente il medico legale non avrà a sua disposizione – come potrà quest’ultimo ritenere o escludere l’esistenza di un’esigenza di personalizzazione del risarcimento? Si pensi – a fortiori – all’ipotesi in cui il sinistro sanitario abbia condotto al decesso del paziente ed in cui, quindi, oltre alla questione della responsabilità del medico o della struttura, venga in considerazione il danno da perdita del rapporto parentale che involge l’accertamento della relazione affettiva ed assistenziale tra vittima e parente.
O ancora. In materia di risarcimento del danno per lesione del diritto all’autodeterminazione (c.d. mancanza di consenso informato al trattamento sanitario), per chi ammetta che tale questione possa rientrare nel focus di valutazione di un medico legale e, quindi, nell’alveo di applicazione dell’istituto delineato dall’art. 696 bis C.p.c., come potrà il consulente del Giudice liquidare motu proprio un risarcimento che, notoriamente, può essere quantificato solo in via equitativa?
Il limite oltre il quale il medico non si può spingere è stato già individuato dall’osservatorio del Tribunale di Milano nella formulazione del quesito standard da sottoporre al medico legale. In quella sede, con riferimento alla necessità di individuare un benchmark per la liquidazione del danno morale, si è affidato al medico il compiuto di definire la “sofferenza menomazione correlata” (c.d. “nocicezione”) che è pur sempre legata al pregiudizio psico fisico sofferto, anche se non si traduce di per se’ stesso in una menomazione biologica, mentre è rimasto fuori il danno da “sofferenza pura” che si riscontra (ed è liquidabile come autonoma declinazione del danno non patrimoniale) nel caso, ormai frequente, di lesione di un diritto costituzionalmente protetto diverso dalla salute.
Oltre, mi pare non si possa andare.
A questo punto, l’orizzonte è evidente a tutti e forse lo abbiamo già anticipato.
La proposta transattiva che venga omnimodo suggerita dal medico legale rischia di ridursi ad una mera “media aritmetica” tra quanto chiesto dalle parti, con la conseguenza aberrante che laddove il paziente chieda una somma lunare oppure la struttura (spesso, per il vero, la sua assicurazione) neghi anche l’evidenza dei fatti, il risultato finale sarebbe una grandezza economica slegata da ogni ratio.
Non se lo merita il medico legale, non se lo meritano gli avvocati, ma, soprattutto, non lo meritano le parti.
Conforta il fatto che, a fronte di tale scoraggiante prospettiva, esiste una via d’uscita a portata di mano.
L’art. 696 bis C.p.c. recita testualmente: “Il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti”
La lettura più corretta di tale norma è quella che induce a ritenere che, ad essere “possibile” è il tentativo, non la conciliazione.
Se il Consulente si trova nell’impossibilità (logica, più che materiale) di formulare una proposta transattiva, deve limitarsi a concludere la propria perizia mettendo in evidenza tale dato