L’obbligo vaccinale

Al giorno d’oggi si sente spesso parlare di vaccino e vaccinazione. Ma che cosa si indica con il termine “vaccinazione”?

Se si cerca sul vocabolario il termine vaccinazione, si trova che esso significa “preparazione rivolta a indurre la produzione di anticorpi protettivi da parte dell’organismo, conferendo una resistenza specifica nei confronti di una determinata malattia infettiva (virale, batterica, protozoaria)”

Si tratta, quindi, di un trattamento sanitario di natura preventiva volto a tutelare la salute individuale e collettiva, in quanto “un alto livello di copertura vaccinale del gruppo sociale limita al massimo il rischio di diffusione della malattia, proteggendo anche i soggetti non vaccinati e coloro che non possono sottoporvisi per condizioni soggettive particolari”.

Affinchè un vaccino possa essere imposto, è necessario che esso sia innocuo (nel senso che non deve causare un danno alla salute del singolo, salvi i soli inevitabili effetti collaterali, per la loro natura tollerabili) e deve avere una efficacia preventiva scientificamente provata, nel senso di conferire al singolo uno stato di immunità di sufficiente durata.

La regola ex art 32 Cost. sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, comprese le vaccinazioni, salvo quelle per le quali la legge istituisca un obbligo. In effetti, la legge stabilisce molti casi di vaccinazioni obbligatorie (per esempio la vaccinazione contro la difterite, il tetano).

A seguito della diffusione del covid-19, la tematica della vaccinazione è tutta attualità.

Il vaccino contro il covid-19 è stato reso obbligatorio per legge solo per certe categorie di soggetti (per esempio gli insegnanti, il personale medico, i soggetti ultra cinquantenni ecc).

Una prima domanda può sorgere: se tali imposizioni sono legittime.

Con particolare riferimento all’obbligo vaccinale per il personale sanitario, il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che “…nel bilanciamento tra detti interessi (rectius, salute pubblica e libertà di autodeterminazione del singolo), tutti costituzionalmente rilevanti e legati a diritti fondamentali, deve ritenersi assolutamente prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, degli utenti della sanità pubblica e privata e ciò sotto un profilo di solidarietà sociale nei confronti "delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l'esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l'avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza" (Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045). Considerato che l'obbligo vaccinale per il personale sanitario "è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia" (Consiglio di Stato, Sez. Terza, sent. 7045/2021 cit.); Considerato che, salva la più approfondita valutazione che sarà effettuata in sede di merito, le soluzioni legislative non sembrano allo stato violare le norme Costituzionali e sovrannazionali. Ed invero, come ha da tempo chiarito la giurisprudenza costituzionale in tema di tutela della salute ai sensi dell'art. 32 della Costituzione "la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell'ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)",(Corte Costituzionale, sent. 5/2018)..” (C.d.S., sez. III, 04.02.2022, n.583).

In termini analoghi, è stato affermato che “L'imposizione dell'obbligo vaccinale al personale scolastico, sia docente che non docente, deve ritenersi legittimo, dovendo intendersi come legittimo un intervento normativo dello Stato volto alla previsione di un obbligo vaccinale per determinate categorie di soggetti”(C.d.S., sez. III, 28.01.2022, n. 416).

Quindi, alla luce del fatto che nessun diritto è “tiranno” (caso Ilva), ma anche i diritti fondamentali sono soggetti a bilanciamento, è ragionevole ritenere che, per ragioni di salute pubblica e, soprattutto, di certe categorie fragili (per esempio bambini e malati), si renda obbligatorio il vaccino. In altri termini, il vaccino può rendersi obbligatorio per ragioni di solidarietà e altruismo, affinchè il prossimo con cui si viene a contatto per ragioni di lavoro (si pensi all’insegnante, al personale sanitario), non subisca pregiudizio.

Ciò detto, occorre valutare se, pur in assenza di un obbligo di fonte legale e finchè duri la pandemia da covid-19, il datore di lavoro possa richiedere la vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti. Occorre, cioè, accertare se, pur mancando un obbligo di fonte legale, il vincolo possa essere imposto a talune categorie per effetto del contratto di lavoro.

Secondo un primo orientamento, nonostante il dettato letterale dell’art 32 Cost, il datore di lavoro può esigere dai dipendenti la vaccinazione contro il covid-19 quando essa sia concretamente possibile. In altri termini, quando il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, con l’assistenza del medico competente, ravvisi nella vaccinazione contro il covid-19 una misura utile per ridurre il rischio di trasmissione dell’infezione nell’azienda, egli ha il potere di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro, salva l’ipotesi in cui per il singolo dipendente ricorra un motivo personale (essenzialmente di salute) che sconsiglia di sottoporsi al vaccino.

A fondamento di tale tesi, si pongono diversi elementi normativi.

L’art 2087 c.c., innanzitutto, obbliga l’imprenditore, pubblico o privato, ad adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La giurisprudenza, sul tema, afferma che “Pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. non è, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica dei lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. L'oggetto sostanziale dell'onere della prova a carico del datore è assai ampio, posto che esso attiene, come già si è detto, al rispetto di tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge, oltre che a quelle suggerite dalla esperienza, dall'evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto”(Trib. Teramo, sez. lavoro, 06.04.2022, n.177).

In una situazione di pandemia da Covid-19, secondo le indicazioni della scienza medica, un ufficio in cui tutti siano vaccinati contro il virus realizza condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiori rispetto all’ufficio in cui una parte dei lavoratori non sia vaccinata. Quindi, affinchè le garanzie e tutele imposte dall’art 2087 c.c. siano rispettate, l’imprenditore è certamente legittimato a chiedere a tutti i suoi dipendenti la vaccinazione, ove questa sia per essi concretamente possibile (rectius, laddove non vi siano controindicazioni personali per essi).

Conseguentemente, la permanenza sul luogo di lavoro di lavoratori non vaccinati che si rifiutino di sottoporsi alla vaccinazione, può determinare, innanzitutto, la violazione ai sensi dell’art 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti. In termini, il Tribunale di Belluno ha affermato che “In caso di rifiuto alla vaccinazione contro il SARS-COV-2 da parte di operatori sanitari (OSS), la loro permanenza nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti”(Trib. Belluno, 19.03.2021).

Un altro elemento normativo a sostegno della tesi in discorso è l’art 279 DLgs 81/2008 che prevede l’obbligo dell’imprenditore di richiedere la vaccinazione del dipendente. La previsione è riferita al rischio di infezione derivante da un “agente biologico presente nella lavorazione”; l’orientamento favorevole all’interpretazione estensiva, però, ritiene che tale obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatore. 

In ogni caso, anche ad interpretare l’art 279 cit. come volto a prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro e non i rischi provenienti dall’esterno, comunque il rischio dell’infezione da Covid-19 è stato qualificato dalla legge (v. art 42, co. 2 D.L. 18/2020, conv. in L 27/2020) come rischio di infortunio sul lavoro. Conseguentemente, il legislatore ha considerato il fatto stesso di lavorare in un’azienda con altri come causa tipica del rischio di infezione da Covid-19 e ciò è sufficiente perché di questo rischio debba farsi carico il datore di lavoro.

A questo primo orientamento se ne contrappone un altro che, invece, interpreta in maniera restrittiva l’art 32 Cost.

La norma, infatti, recita “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La norma è chiara nel prevedere una riserva assoluta di legge: l’obbligo vaccinale può sorgere solo per disposizione di legge (quindi, solo in presenza di un’espressa disposizione normativa). Oltre al principio di stretta legalità, l’art 32, co 2 Cost contempla anche una sorta di “principio di tassatività” analogo alle fattispecie penali tale per cui risulterebbe inammissibile un obbligo vaccinale di fonte legislativa ad oggetto indefinito. Quindi, la vaccinazione anti Covid-19 derivante da fonte contrattuale non può ritenersi costituzionalmente compatibile perché vi osta il limite dell’art 32, co 2 Cost, direttamente efficace nei rapporti tra privati e superabile solo attraverso una espressa disposizione di legge.

Conseguentemente un obbligo vaccinale introdotto tramite la fonte contrattuale sarebbe nullo per violazione di norma imperativa (art 1418, co 1 c.c.). La vaccinazione anti Covid-19 è un atto spontaneo di disposizione del proprio corpo, attuato mediante acquisizione del consenso informato, sempre revocabile. La nullità dell’obbligo vaccinale privo di copertura legislativa non può che determinare la nullità di qualsiasi atto datoriale di gestione del rapporto che sia pregiudizievole per il lavoratore e che trovi sua causa nel rifiuto nella vaccinazione (si pensi al demansionamento, all’allontanamento temporaneo, alla sospensione senza retribuzione, al licenziamento). Tali atti dovrebbero considerarsi a loro volta nulli ma per illiceità del motivo ex artt 1345 e 1418 c.c. (applicabili ai sensi dell’art1324 c.c. anche agli atti unilaterali).

In ogni caso, il rinvio alla legge non può interpretarsi come un rinvio alla più ampia discrezionalità del legislatore. Posto che anche il decreto legge è strumento idoneo a introdurre obblighi vaccinali, comunque la Corte Costituzionale ha posto limiti ben stringenti affinchè l’introduzione di un obbligo vaccinale non vada a detrimento della salute del singolo. In termini, la Consulta ha affermato che “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacchè è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. Ma si desume soprattutto che un trattamento sanitario può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario, e pertanto tollerabili” (Corte Cost. 307/1990).

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Il risarcimento del danno da vaccinazioni